Per tutti gli anni Ottanta Adriano approfondisce gli studi e le ricerche sui temi a lui più cari: la necessità di comprendere e salvaguardare i significati profondi del vivere nel mondo contadino e l’urgenza di proteggere un territorio e un paesaggio deturpati e stravolti con sempre maggiore violenza. Sono gli anni in cui più numerosi e sferzanti compaiono i sui scritti su quotidiani, riviste o libri scritti a più mani.
Nel 1992 partecipa con una delle sue numerose novelle brevi al Premio Cocito, che si svolge a Montà d’Alba (CN) e vince il terzo premio. Il titolo dello scritto è L’anno 402 e racconta della battaglia combattuta a Pollenzo (CN), tra Romani e Visigoti.
Nel 1997 è tra i membri fondatori della Cornale Società Cooperativa di Magliano Alfieri, cui aderiscono circa 80 piccole e medie aziende, allo scopo di promuovere e tutelare l’agricoltura nativa e sostenere forme di scambio fondate sulla fiducia reciproca tra le persone.
Nel 2002 viene eletto presidente del Comitato dei produttori di pera madernassa da pianta storica.
«Le grandi piante da frutto dovevano essere perfettamente allineate e in simmetria tra loro, come segni ordinati di una religione della terra. (…) Chi coltiva queste piante ha un forte legame con esse, e questo legame si innesta in una tradizione quasi tribale di villaggio, dove la pianta costituisce un punto di aggregazione e di riconoscimento ambientale».
Nel 1999 dalla collaborazione tra Antonio Adriano e il Comune di Magliano prende forma un nuovo progetto di documentazione e tutela, il Museo del Tanaro. «(…) vuole essere un museo dell’acqua e della terra, un museo dell’ambiente e del paesaggio, della cultura materiale dell’uomo, dei suoi pensieri e del suo lavoro». Il progetto, che avrà per titolo Teatro del paesaggio, è stato avviato nel 2008.
Nel 2000 collabora con l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino per un corso estivo sul gesso, le cave, la lavorazione, i soffitti. Gli atti di quel corso sono raccolti nell’opera De gypso et colori bus, a cura di Gian Luigi Nicola.
Antonio collaborerà con molte scuole primarie e secondarie dell’Albese e sarà docente in corsi di aggiornamento per insegnanti o assistenti turistici.
Nella primavera del 2004, insieme con alcuni insegnanti dell’Istituto Comprensivo di Govone (CN), dà vita a un progetto organico, Scuola di territorio: prima di andarsene ha potuto comunicare alle nouve generazioni il suo messaggio e la sua passione.
Nel giugno 2006, dà alla stampa la sua opera Feste sotto la luna – Balli e ballate dell’Albese, dopo averla pensata e curata in anni di studio e lavoro intensissimi. Non l’ha vista edita, purtroppo.
Sabato 2 giugno 2007 la Giunta comunale e i Presidenti delle associazioni maglianesi hanno assegnato ad Antonio Adriano il premio alla memoria, Amico di Magliano.
ALTRE COLLABORAZIONI
- Famija Albèisa, di cui divenne socio onorario nel 1994.
-Museo Eusebiodi Alba, per la sezione di archeologia.
- Centro Studi Cesare Pavese, Santo Stefano Belbo (CN).
- Casa degli Alfieri. Archivio della teatralità popolare, Castagnole Monferrato (AT).
- Università di Torino.
- Soprintendenza Archeologica di Torino.
- Centro Etnologico Canavesiano, Bajo Dora (TO).
-Centro di ricerca per il Teatro, Milano.
- Astisio, Associazione artistico – culturale del Roero.
SCRITTI DI ANTONIO ADRIANO
* Nuova Archeologia
in La Bilancia, Alba, 1971, n. 23.
* Le feste di primavera nelle Langhe e nel Monferrato
in La Bilancia, Alba, 1972, n. 11, 12, 13.
* Paesaggio e cultura ambientale
in Documenti di Italia Nostra, Alba, 1973, n. 1, p. 9.
* Tradizioni popolari delle Langhe
in Il Cantastorie, Reggio Emilia, dicembre 1973, n. 10/12, pp. 16-24.
Soffitti in gesso dell’Albese
ciclostilato edito a cura della Fiera Nazionale del Tartufo, Alba, 6-20 ottobre 1974.
* Centri storici minori e vita popolare
* I centri storici dell’Albese
in Documenti di Italia Nostra, 1975, n 2 pp. 59-60 e pp. 72-74.
* Giovanni Rava
in Tradizionalismo pittorico e decorazione – Mezzo secolo di pittura minore nell’Albese, Alba, 1975, pp. 5-6.
* Appunti per un dibattito sull’arte popolare
in Espressioni d’arte popolare nell’Albese, Alba, 1976, pp. 6-7.
* Gruppo Spontaneo Maglianese
in La cultura popolare in Piemonte, Torino, 1977, pp.27-33.
Feste calendari ali e canti popolari dell’Albese
libretto allegato al disco ALBATROS, V P A 8415, editoriale Sciascia, Milano, 1977.
* Lineamrnti dell’evoluzione storica del paesaggio agrario della collina delle Basse Langhe
* La casa rurale lamorrese
in La Morra cultura e territorio, La Morra, 1978, pp.15-20 e pp. 215-238.
* Gruppo Spontaneo di Magliano Alfieri
in Folks – Fest, Bonn, 1979, pp. 77, 96, 98-103, 105.
* Il Carnevale nelle Langhe e nel Monferrato
in Verde, Torino, 1979, n. 1, pp. 29-35.
* Una festa popolare di primavera
in Verde, Torino, 1979, n.3, pp. 47-48.
* Museo rurale a Magliano Alfieri
in Verde, Torino, 1979, n. 4, pp. 46-47.
* Cultura dell’infanzia contadina
in Verde, Torino, 1979, n. 8, pp. 47-48.
* Per la salvaguardia del patrimonio artistico. Restaurata la cappella di San Giacomo a Magliano Alfieri
in Bollettino della Società degli Studi Storici Archeologici ed Artistici della Provincia di Cuneo, Cuneo, 1979, n. 81.
* Il legame culturale con la campagna
in Verde, Torino, 1980, n. 5.
* Ninna nanna nel mondo contadino
in Verde, Torino, 1980, n. 6.
* Giocare con le filastrocche
in Verde, Torino 1980, n. 7.
* Parchi naturali nell’Albese
* Considerazioni sull’archeologia nell’Albese
* Ricerche etnografiche per una storia della società contadina nell’Albese
in Dieci anni di Italia Nostra nell’Albese, Alba, 1982, pp.51-60; pp.78-89; pp.105-110.
* Gruppo Spontaneo di Magliano Alfieri: fare cultura in una piccola comunità rurale
in I musei contadini, a cura di Piercarlo Grimaldi, Cuneo, 1982.
* Canté i öv
* Canté mag
in La cultura del mondo popolare, Touring Club Italiano, Milano, 1983, pp. 16-17; p. 72.
* Federico Eusebio folclorista
in Alba Pompeia, Alba, 1983, n.2, pp. 16-18.
I canti di Maggio Nelle Langhe e nel Monferrato
pieghevole edito dalla Regione Piemonte, dalla Comunità montana Alta Langa, dal Comune e dalla Pro Loco di Bergolo (CN), 31 maggio 1986.
* Giovanni Rava
* Sport popolari e tradizioni
* Giuseppe Sappa, fotografo popolare tra le due guerre
in Gente di Magliano, Magliano Alfieri, 1986, pp.14-15; pp. 95-99; pp. 100-111.
* Erte guazzose tenebre e Colline rosseggianti d’argilla- Magliano visto da Beppe Fenoglio
in Il monte dei sette castelli, Pro loco di Magliano Alfieri, 1989, pp. 31-32.
* Filatüra ‘d Val Fenera a j’è ‘d filere ‘n quantità
in La filatura di Valfenera, Alessandria, 1991, pp. 233-248.
* Magliano dalla preistoria alla romanità
in Le comunità parrocchiali di S. Andrea e S. Antonio, maggio-agosto 1994.
* Terre d'erba, di lune e di gesso...
inTerre d'erba, di lune e di gesso... (cartella di 12 stampe)
e in Questa terra è la mia terra (cartella di 16 stampe)
immagini di Antonio Adriano
* Arte e cultura del gesso: museo di Magliano Alfieri
* Le colline della fatica e della festa
in Langhe e Roero – Le colline della fatica e della festa, Torino, 1995.
* Il mondo tradizionale. Archeomitologia, storia, letteratura, folclore e cultura materiale
* La casa rurale
in Roero viaggio in una terra ritrovata, Bra, 1997, pp. 113-1.
* Il museo dei gessi a Magliano Alfieri
in Piemonte Langhe e Roero, Torino, 1998.
* Compagnie e confraternite. L’organizzazione religiosa popolare nell’antico mondo contadino.
(scritto con Renato Penna e Patrizio Porta) in Un Santo un Conte un Borgo. Trittico maglianese, Torino, 1998, pp. 215-226.
* Il Gruppo Spontaneo di Magliano Alfieri. Alla ricerca del folclore perduto
in Fantasie in gesso e stanze contadine, 1999.
* Gli intagliatori delle matrici lignee. Minüsié e mèistr da bòsch
in De Gypso et colori bus, Torino, 2002, pp. 28-33.
* I soffitti di gesso dell’Albese; storia di una ricerca sul campo
* Gli intagliatori delle matrici lignee, minüsié e mèistr da bòsch
* Dioniso nel Monferrato. Grappoli d’uva e festa galante nelle decorazioni dei soffitti di gesso
* Cave di gesso, loro peso economico
* Mezzi di trasporto del gesso: l’asino
* Cave e fornaci di gesso, notizie storiche
in Il Platano, Asti, 2002, pp. 155-205.
* Prefazione
in Il paese della musica. 1854 - 2004: i 150 anni della Banda di Magliano Alfieri, Alba, 2004, pp. 5-7.
Il Varej – Cronaca di una morte annunciata
ricerca in collaborazione con Olga Scarsi per il concorso “I tesori nascosti del Roero”, Canale (CN).
Il pilone desparecido
ricerca in collaborazione con Olga Scarsi per il concorso “Iconografia popolare del Roero”, Canale (CN), maggio 2006.
* L’orso di piume nelle Langhe e nel Roero
in Carnevale. Orsi di pelle, di paglia, di piume, di foglie, Grugliasco (TO), 2005.
* Distruzione della memoria del paesaggio
in “Pagine del Cornale”, febbraio 2005.
Feste sotto la luna. Balli e Ballate dell’Albese, Torino, 2006.
HANNO SCRITTO DI LUI
«Essere notturno, traspariva come solare personaggio d’una lirica di Oreste Gallina. Ma come la prosa “fresca” di Fenoglio nascondeva la confessata dura fatica dello spensierare, così Antonio ci ha nascosto, dietro il grande talento della capacità di sintesi, l’enorme lavoro di ricerca».
[ Giovanni Castella, Alba Pompeia, n.s., a. XXVI ]
«(…) lo ricordo soprattutto perché ha fondato e guidato per anni il Gruppo Spontaneo di Magliano Alfieri. A lui si deve l’intuizione di aver riproposto con intelligenza il tradizionale canto della questua delle uova,il “canté j euv”».
[ Carlin Petrini, La Stampa, 6 luglio 2006 ]
«Lo incontro una domenica pomeriggio nel “suo” castello, a Magliano Alfieri. Classe 1944, intorno al metro e novanta di altezza, viso interessante, modellato dall’intensità di queste colline e dalle fatiche che ancora sanno evocare. Colpiscono gli occhi vivaci e sinceri, a sovrastare un naso importante ma gentile. Ha l’aria nobile di chi crede in qualcosa. La sua figura potrebbe essere stata scolpita nel legno o modellata nel tufo di queste contrade (…). Questo grande ragazzo, non ancora stanco di sorprendersi di fronte al mondo e alle rivelazioni delle valli collinari impastate di fango, polvere, vigne, canne e sentimento, fa uscire dalla sua voce profonda, da basso, tutto l’amore e la passione per la sua terra».
[ Walter Giuliano, Slow food, periodico d’informazione, luglio 2006 ]
«Pochissimi, come lui, hanno saputo prendere le distanze dalla mentalità dominante improntata al culto del denaro e al consumismo: ad appassionarlo, a riempire il senso delle sue stagioni, sono state altre dimensioni della vita, dalla lettura sino a notte fonda ( in primo luogo dei “suoi” Pavese e Fenoglio), alle discussioni con gli amici in cui abbinava talento dialettico e gusto per la polemica, dalla scrupolosa raccolta di reperti archeologici, alla contemplazione di aspetti suggestivi della natura. Mentre molti parlano di sobrietà, lui la praticava sul serio, nel vestire, nel mangiare, in ogni scelta di vita. Chi ha avuto la fortuna di frequentarlo assiduamente non ha potuto fare a meno di apprezzarne la vasta cultura, l’esuberanza giovanile, il gusto delle cose belle, l’incontenibile amore per la vita».
[ Mauro Aimassi, Gazzetta d’Alba, 11 luglio 2006 ]
«La stanza studio-biblioteca, altamente originale per l’infinita varietà di materiale cartaceo, è la proiezione fisica della stratificazione del sapere del padrone di casa. Tutto ciò che Antonio ha realizzato è speciale: sembrerebbe banale, ma non trovo altro modo per definire la sua opera che ha spaziato in tanto vasti territori culturali. Collaborò con me e con altri amici al giornale “La Bilancia”: i suoi scritti avrebbero potuto definirsi tesi di laurea per la profondità dei contenuti e delle annotazioni. Oggi posso dire che mi fu guida e maestro nella conoscenza del territorio».
[ Raul Molinari, Gazzetta d’Alba, 11 luglio 2006 ]
«Il suo è certamente il profilo di un rigoroso e coerente anticipatore di ricerche appassionanti, un propugnatore di idee controcorrente per l’affermazione di valori da molti tralasciati o disdegnati, un sensibile e coinvolgente “leader” per iniziative locali. Per noi, soci di Italia Nostra, il suo rimpianto è molto sentito».
[ Alessandro Marengo, presidente di “Italia Nostra” – Alba, Gazzetta d’Alba, 18 luglio 2006 ]
«Era tornato nel “Bosco Alto” di Magliano Alfieri dopo aver camminato tutti gli angoli della Langa più alta e del suo Roero, alla fine degli anni del Magistero a Torino, la cattedra della Scuola Agraria di Cravanzana e all’inizio delle prime voglie di ribellione. Nel Bosco Alto, suono che ricorda uno dei più bei racconti di Dino Buzzati, c’erano un pioppeto, campi di frumento e mais, un prato perché la terra potesse respirare, e gelsi che gli raccontavano le storie dal mondo dei bachi da seta, ormai inghiottite dal tempo. E c’era un piccolo capanno di legno, per stare in silenzio o parlare con gli amici, cantare le canzoni del “maggio” e delle “uova” e assieme guardare l’arrivo della primavera, la prima nebbia e l’ultima neve oltre il Tanaro».
[ Luigi Sugliano, La Stampa, 23 settembre 2006 ]
«Voglio ricordare, affinchè non resti in secondo piano, un altro aspetto non comune della sua personalità: un grande senso civico “a tutto campo” (…). Antonio aveva la capacità di indignarsi intensamente non solo quando persone incivili orinavano la birra eccedente contro il portone o i muri del castello, ma anche, ad esempio, di fronte a un atto vandalico contro un cartello stradale, o quando vedeva dei rifiuti nella bealera, o quando un’auto a forte velocità si esibiva pericolosamente per le strade di Magliano, oppure quando un anziano veniva derubato (…)».
[ Cesare Giudice, Il Paese, Novembre – Dicembre 2006 ]
«A casa di Antonio tutto emanava un senso di profondo equilibrio: mondo vegetale e mondo animale non sembravano in lotta per la reciproca sopravvivenza ma tutto conviveva in un clima di pace ed armonia, secondo il principio per cui “tutto scorre”. Persino la grande quercia che si innalzava come un palo del “maggio” al centro del cortile creava un’atmosfera magica per la sua chioma lilla e violetta: un glicine le si era innestato dalle radici divorando il suo spazio vitale e facendola soffocare, ma Antonio non se l’era sentita di recidere volontariamente nessuno dei due esemplari, così lasciava che fosse la natura a fare il suo corso e ogni volta ammirava quella devastante unione naturale come uno spettacolo inconsueto».
[ Olga Scarsi, Il Cantastorie, Gennaio – Giugno 2007 ]
«Antonio Adriano ci lascia una grande, impegnativa e preziosa eredità immateriale e materiale. Da un lato un vasto e prezioso archivio costituito dalle sue pubblicazioni, dai tanti e diversi materiali di ricerca ritrovati sui terreni della Langa e del Roero, raccolte di canti, di fiabe, leggende, narrazioni popolari, storie di vita. Straordinario conoscitore e interprete del paesaggio rurale, ci ha consegnato un patrimonio fotografico unico e irripetibile, che documenta un mondo che oggi non ci è più dato di osservare, completamente stravolto da uno sviluppo industriale e neorurale per nulla rispettoso del paesaggio tradizionale.(…)
Antonio si è fatto terra al maturar del grano, quando le sue albicocche che sanno di tutti i sapori del mondo, sono giunte a maturazione, quando sulle colline si accendono i falò e le lune delle lunghe feste estive, e il canto notturno si distende sulle pavesiane colline libere. Così vogliamo ricordare Antonio Adriano, ultimo saggio uomo selvaggio della postmodernità che se ne va nel tempo dei raccolti».
[ Piercarlo Grimaldi, Feste sotto la luna, luglio 2006, postfazione ]
«Tra i tanti ricordi dolorosi o consolanti, ci torna alla mente quella domanda che Antonio fece all’amico Mauro, durante una delle appassionate discussioni sul grande tema, che non gli dava pace, del bene e del male, del dolore che ferisce le creature e della promessa di infinita quiete: “Ma perché il Signore non ci ha fatti come gli angeli?”».
«Eravamo molto giovani. Credo che in quell’anno non dormissi mai. Ma avevo un amico che dormiva meno ancora di me […]». «A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era così bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravamo ancora che qualcosa succedesse […]».
Sono questi i due incipit pavesiani rispettivamente del Diavolo sulle colline e della Bella estate, testi che sprizzavano brucianti parole di vita e di attesa di vita per un gruppetto di giovani amici che, agli inizi degli anni Sessanta, cercavano vie ed orizzonti in un piccolo paese tra le colline di Langa e Roero.
Si era allora nell’età, per dirla ancora con Pavese, in cui «si ascolta parlare l’amico come se parlassimo noi».
Quel gruppo, che sarebbe poi diventato il Gruppo Spontaneo di Magliano Alfieri, a partire dalla prima riproposta sul campo della questua delle uova nel marzo del 1965, non poteva e non voleva dimenticare le immagini, i paesaggi, le storie, i canti, le fantasie e le feste provenienti dal passato. Era una storia imparata sin da bambini dal discorrere dei vecchi e durante i giochi coi compagni sulle aie e nei campi, in un’età in cui le parole degli adulti si imprimono forti nel cervello e i sentieri e la terra calpestati coi piedi scalzi lasciano tracce mentali e visive che efficaci ritornano nel tempo. Era la storia degli antenati che, zappata dopo zappata, mietitura dopo mietitura, avevano costruito il mondo che ci aveva visti nascere e crescere. Un mondo che però perdeva rapidamente i suoi connotati e la sua antica anima.
Noi del Gruppo agli inizi eravamo solo, come dice la canzone di Paoli, «quattro amici al bar, che volevano cambiare il mondo»; (gli amici, per la cronaca, erano Antonio Adriano, Renato Castello, Teresio Sappa, Felice Torchio e Francesco Traversa). Poi s’ incominciò, spesso durante notturni vagabondaggi per sentieri di collina, a riflettere sulle trasformazioni in atto nelle campagne che riducevano a relitto il vecchio mondo contadino, mentre l’accatto di nuovi modelli culturali creava lacerazioni e squilibri ambientali, di cui ancora oggi avvertiamo le nefaste conseguenze. Tutto ciò che apparteneva alla tradizione popolare doveva essere cancellato in quanto simbolo, per molti, di miserie morali e materiali. In quegli anni un inarrestabile colonialismo culturale faceva terra bruciata. La gente scappava dalle campagne come da un luogo maledetto e con l’incalzare delle ruspe e del “progresso” sparivano come in un gorgo tradizioni, parlate, oggetti, visioni del mondo, che sino a quel momento avevano segnato la vita degli uomini della terra. L’architettura popolare dei paesi rurali veniva stravolta. In pochissimi anni, tetti dai colori assurdi, piastrelle da pubblico orinatoio, tinte da cremeria e geometrie schizoidi (il tutto avvolto in una degna veste di catrame e di livida luce al neon) hanno dato origine a quella arlecchinata edilizia, improvvisata da un benessere piccolo borghese e da una cultura sordidamente provinciale, che offende ormai in modo irrimediabile gran parte delle nostre campagne.
Il gruppetto maglianese, che viveva quotidianamente la vita del borgo, avvertiva tutto ciò come un trauma e sentiva invece la «voce antica» come un flusso di linfa ancora vitale, che non poteva essere impunemente interrotto. In quegli anni tutto un mondo festivo spariva. Languivano le feste patronali, le processioni sacre e i riti profani. Ricordo immalinconiti, vecchi contadini attendere invano sulle aie, a carnevale, il passaggio anche di una sola sperduta maschera. Le antiche feste comunitarie erano fatte apposta per essere attese. Il loro mancato arrivo era vissuto da molti come un segno di precarietà e agonia spirituale.
L’ethos e l’epos della cultura tradizionale naufragavano come relitti sparsi tra le incrostazioni di uno sviluppo arruffato e senz’anima. Certo quel mondo doveva per forza cambiare. Chiusure, miserie e violenze lo avevano per tanto tempo un po’ corroso dall’interno e reso debole nei confronti dei poteri. Pensiamo solo al ruralismo fascista, che proponeva un mito non genuino, “tecnicizzato”, per usare una illuminante espressione di Kàroly Kerényi. Tutti sappiamo quanto siano folte di nomi contadini le lapidi dei nostri monumenti ai caduti: gente mandata al macello, a far rosse di sangue terre di cui i nostri padri non sapevano nemmeno l’esistenza.
Nel considerare questi fatti c’era in noi un intimo dissidio tra vecchio e nuovo, tra antico e moderno. A renderlo più acuto contribuivano l’emotiva lettura di Pavese della nostra adolescenza. Emergevano in quelle meditazioni il contrasto città – campagna e ancor più il mito della festa, che sembrava perdersi con lo spegnersi dei non più soccorritori falò degli antichi riti agrari. In fondo, le nostre abituali e protratte scollinate erano un lungo stato di veglia in attesa di un evento festivo, che però pareva inattingibile in un mondo ormai sconsacrato e privo «di valore collettivo dei grandi simboli». (F. Jesi).
Tante pagine dello scrittore langhetto rivelavano il fondo amaro della moderna impossibilità della festa e del mito. Già nel romanzo breve La spiaggia, gli amici inurbati che ritornano al paese d’origine per far festa sotto la «luna [che] bagnava ogni cosa, fin le grandi colline », non riescono a ritrovarsi nelle notturne rituali cantate. «Come un giardino delle Esperidi – dice F.Jesi ‒ dal quale non si possa più tornar vincitori, la campagna conserva apparentemente intatta nella sua iconografia tutto il repertorio di immagini che alludono simbolicamente ai misteri della festa antica».
I tre giovani amici protagonisti del Diavolo sulle colline, riescono a vivere qualche momento di antiche realtà festive e a riavvicinarsi alla campagna e alla natura. Durante la memorabile visita ai cugini di Mombello ritrovano per un istante il tempo vero delle origini. Nell’ora intatta prendono uva purificata dall’acqua del pozzo, bevono vino che dona innocenza primordiale in una grotta-tempio. «Ma non possono ‒ dice ancora F. Jesi ‒ appropriarsi del tesoro e devono abbandonarlo con rimpianto».
«Partimmo sotto la luna, nell’aria fresca della sera. Dispiaceva lasciare quell’isola, quell’immensa campagna rossa […]. Era bella la luna, tra bianca e gialla nella sera, e cominciavo a pensare al suo raggio notturno sull’immenso paese, sulla terra, sulle siepi».
Il lunare accenno leopardiano, assai frequente in Pavese, quasi introduce alcuni intenti della riproposta delle feste calendariali del Gruppo Spontaneo e ne sottolinea gli aspetti ampiamente ecologici.
La questua delle uova, che si svolgeva e ancora si svolge in lunghe camminate notturne, vede la tonda luna protagonista sul quadrante celeste del principio di primavera. Nel nostro girovagare si voleva pure ritrovare la «candida», «tacita» luna leopardiana che esplora la campagna e la «Ciprigna luce compagna alla via», e tante altre lune leopardiane. Alla luce di esse a volte il poeta di Recanati riesce ancora a sentire «un certo risorgimento […] in mezzo alle delizie della campagna», come si può scorgere in questa sua lettera del 6 marzo 1820. «[…] e poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tiepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo».
Queste parole, pur prive del suono di un canto lontanante che invece si trova in altre pagine leopardiane, potrebbero fungere per atmosfera e momento stagionale, come alta e grandiosa premessa al sentimento della nostra ripresa del rito primaverile di questua. Anche la canzone delle uova ha versi lunari di pregnante bellezza.
Quando il gruppo maglianese riprese nel 1972 il Cantar Maggio celebrante il trionfo della primavera, ben percepiva, oltre al senso socializzante del rito popolare, gli antichi spiriti sacrali della stagione vivificante. Questi avevano forti radici contadine, ma anche illustri ascendenze culturali, che partono almeno dalla lirica trobadorica e hanno chiari cenni in Petrarca, Botticelli, Poliziano e ancora in Leopardi, con la sua struggente nostalgia delle «favole antiche»:
«Vivi tu, vivi, o santa
Natura? […]
[……………………]
Vissero i fiori e l’erbe,
Vissero i boschi un dì»
Le «selve e le foreste dice ancora il poeta somministrano infinita materia poetica». «Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana […] quando nei boschi […] si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni e Pane […]. E stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra le mani […]».
Anche questi pensieri davano senso e profondità ai tentativi dei giovani maglianesi di riappropriarsi delle antiche feste durante anni di distorto boom economico. Allora la materia bruta sembrava cancellare ogni dimensione spirituale e poetica della vita. Questo fu il nostro Sessantotto.
L’azione del Gruppo, che cercava pure di salvare alberi, monumenti, sentieri e boschetti, appariva a molti quasi eversiva e più di un’ “autorità” tentò di contrastare quelle iniziative.
«Una cosa viva non può essere conosciuta che in stato vivo», ha scritto Kerényi a proposito della festa. Questa formulazione ci era ignota quando (dicembre 1973) dichiaravamo in un nostro intervento sul Cantastorie di Giorgio Vezzani, che era stata «la necessità di sentirci vivi a spingerci [alla riproposta] sul campo [di] antiche e genuine festività, quali i primaverili canti rituali della questua delle uova e del calendimaggio».
Ma tout se tien. Veramente vitale fu per noi allora percepire, quasi alla maniera galileiana, la dimensione vegetale. Scrive Evangelista Torricelli “meraviglioso discepolo di Galileo”: «Appariscono i giorni di primavera […]. Ogni fiore che s’apra sui prati, ogni pianta che verdeggi nelle selve, sono tante bocche e tante lingue, colle quali parlando, la materia creata manifesta la sua interna inclinazione».
Relazione quindi tra natura e humanitas.
Ricercare le feste processionando per antichi sentieri era per noi anche un riandare sulle tracce degli antenati. Toccare con le scarpe la terra dei padri era ritrovare da “viandanti” («quante strade deve percorrere un uomo prima di poterlo chiamare uomo», cantava allora Bob Dylan), un luogo originario perduto, spogliandoci dell’anonimo e dell’inautentico.
Nei nostri girovagare, profili di alberi e di colline, notturne sensazioni, occhi di gatti in amore illuminati di luna, stridori di uccelli, profumi di terra e d’erba al risveglio entravano in noi con nuove sensazioni: nonostante tutto la terra poteva ancora svelare memoria e palpitante verità. Poteva anche essere il più umile dei fiori scorto sui sentieri a destare meraviglia; «Era bello vedere certi fiorellini minuti, sulle zolle sfatte della vigna, che al riprendersi del sole già si ergevano gracili, miracolosi. Il sangue spesso della terra era capace anche di questo.», scrive Pavese nel Diavolo sulle colline. I fiorellini cui allude sono sicuramente quelli che noi chiamiamo “occhi della Madonna”, minuscoli ma intensi segni di vita, azzurri occhi della terra.
Ed infine ecco la festa: piccole vallate inondate di luna, risonanti di canti augurali. Risate e balli e voci allegre ospitali sulle aie della questua. Ecco un vecchio padrone di casa sentirsi toccare il sangue dal canto festivo. Si unisce al coro della brigata. Canta sugli acuti, ma con una voce che viene dal profondo, come sgorgante da mille strati di ricordi, da mille giovinezze perdute e poi felicemente e inaspettatamente ritrovate. E da ultimo i doni, cibo e vino, profumi e sapori prima segreti e poi svelati alla piccola comunità dei questuanti.
E ancora la forza della festa lascia grandi ricordi.
Uno di questi viene da una nostra cantata ai Balluri di Neive, di una ventina di anni fa.
E’ verso l’una di notte. Il gruppo maglianese procede sullo stradone alla ricerca delle ultime case ospitali. D’improvviso vediamo un’ombra uscire da un noccioleto laterale. Un uomo ci ferma per parlarci. Dice che nella casa in collina dietro il noccioleto c’è un vecchio malato, da poco arrivato dall’ospedale per morire nel suo letto. Ha forse ancora un mese di vita. Si è scosso dal sonno sentendo il fragore della musica festante che saliva la vallata. Prima di morire vuole ancora una volta sentire cantare le uova. Andiamo alla casa in silenzio, compunti, come per celebrare un rito d’importanza capitale che sta tra la vita e la morte.
Il vecchio è alla finestra del piano alto, illuminata dalla fioca luce della sua stanza. E’ un uomo, benché malato, alto e dritto, quasi ieratico nella sua affilata silhouette. Sulle spalle ha la giacca della “vestimenta” della festa e in testa il nero borsalino dei patriarchi contadini.
La luna è piena, la cascina ha i muri bianchi. C’è una luce surreale, da regno delle ombre. I ragazzi sull’aia cantano commossi, quasi con sommessa ma tesa voce di addio e di omaggio ai padri costruttori di mondi, «che come macerie di monte stanno nel fondo di noi» (R. M. Rilke, III Elegia Duinese).
Antonio Adriano nasce a Magliano Alfieri (CN) il 5 aprile 1944, da una famiglia contadina.
Si diploma presso il Civico Istituto Magistrale Elvio Pertinace di Alba (CN)
Frequenta la facoltà di Magistero a Torino, supera tutti gli esami, prepara la tesi, ma non si laurea. Negli stessi anni universitari è assistente presso il collegio-convitto della Scuola Agraria di Cravanzana (CN).
Poi la svolta: torna a fare il contadino a Magliano e dice di sé: «Sono un po’ anarcoide. Da questa indole sono derivate le mie scelte di libertà e con loro, la necessità di fare un po’ di vita povera ma dignitosa, in campagna. Ora gestisco una cascina “arcaica”, composta dal bosco, dal pioppeto, da coltivazioni di frumento e mais, da frutteti e da un prato, che tengo solo perché la sua presenza ha un significato ecologico (…)».
Fin da quegli anni avvia, con un gruppetto di amici, i primi sperimentali scavi archeologici. Il frutto di quelle ricerche, frammenti e monete romane, ma anche ceramiche e pietre preistoriche, dopo una prima inventariazione, è ora custodito in una sala del Castello di Magliano.
Dà vita, con una quindicina di giovani, al Gruppo Spontaneo di Magliano Alfieri che porterà nelle piazze, nei teatri e nelle biblioteche d’Italia e non solo, i canti raccolti presso i contadini di Langa e Roero. Insieme riportano nelle aie delle nostre borgate i canti primaverili di questua. «Ricercare le feste processionando per antichi sentieri era per noi anche un riandare sulle tracce degli antenati. Toccare con le scarpe la terra dei padri era ritrovare da “viandanti” (“quante strade deve percorrere un uomo prima di poterlo chiamare uomo”, cantava allora Bob Dylan), un luogo originario perduto, spogliandoci dell’anonimo e dell’inautentico».
Nel 1971 inizia una collaborazione con la Fiera del Tartufo di Alba, occupandosi di temi etnologico-etnografici e archeologici.
Nel 1972 è tra i soci fondatori della Sezione Albese di Italia Nostra, dove ricopre la carica di vicepresidente fino al 1977.
Fin da quegli anni insegue un progetto che prevede la tutela del Castello degli Alfieri a Magliano, dove poter dar vita a un centro di documentazione sulla cultura contadina.
Nel 1976 fonda, insieme ad alcuni amici, la Biblioteca Civica di Magliano Alfieri.
Hanno inizio collaborazioni fattive fra Antonio Adriano, il Comune di Magliano Alfieri, Il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, la Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte, l’Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte e il Museo Nazionale d’Arti e Tradizioni popolari di Roma per realizzare il Museo dei soffitti in gesso.
Il Museo sarà inaugurato nel 1994 e Antonio Adriano ne sarà il direttore fino al luglio del 2006 (data della sua dipartita).
Nel luglio del 2008 il Comune di Magliano Alfieri intitolerà il Museo al suo direttore : CIVICO MUSEO ANTONIO ADRIANO – ARTI E TRADIZIONI POPOLARI – LA CULTURA DEL GESSO.